mercoledì 10 gennaio 2007

articolo pubblicato da Liberazione domenica 17 dicembre 2006

Ci dichiariamo nipoti politici

Un film (quasi) ritratto di Lidia Menapace


di Monica Lanfranco e Pietro Orsatti


Non ci potrebbero essere persone così diverse, come noi due: eppure la stessa rabbia ci ha colto, quando all’edizione serale del telegiornale il post fascista Ignazio La Russa ha auspicato, con il tatto raffinato che lo contraddistingue, che l’onorevole Lidia Menapace se ne stesse a casa a occuparsi dei nipotini, invece che di Difesa. Era giugno, faceva già troppo caldo, e quelle frasi non migliorarono l’umore.

Una telefonata di Pietro, da Roma a Genova, a Monica, e il progetto ‘film su Lidia’, come è stato poi definito nel lessico familiare che si è creato nel gruppo di produzione, è partito. Contattiamo la neoeletta senatrice Lidia, e nei suoi primi giorni di vacanza dopo la sua entrata a Palazzo Madama eccoci in viaggio. Due auto: da Genova Monica parte con suo figlio Anteo, sedicenne; Pietro da Modena con Sonia Lattanzi, incipiente gravidanza, e Maura Pazzi, con il figlio di dodici anni al seguito. La troupe si incontra dopo centinaia di chilometri a Pordenone, imbarca Lidia che è ad una iniziativa di Beati costruttori di pace, e via verso Cles, provincia di Trento, con una spesona di verdure, formaggi e frutta fresca. Il vino lo troveremo a Cles, la sera: un vino piemontese che scivola giù a rallegrare, se ce ne fosse bisogno, questa troupe sgangherata e accaldata. La telecamera è già accesa in auto, il viaggio materiale in salita verso le montagne è l’anticipo del viaggio virtuale che la memoria di Lidia sgrana attraverso la sua storia privata: quella dei suoi genitori, dei suoi amori e del suo ‘matrimonio senza obbligo di convivenza’ con il medico trentino Nene, scomparso due anni fa, e quella sociale e politica.

La scelta nonviolenta nel movimento della Resistenza, il ’68, la fondazione del Manifesto, il femminismo, le riflessioni sul difficile presente, la gabbia dorata, così la definisce sin dai suoi primi reportage nella lista di discussione Lisistrata, del Parlamento.

“Noi eravamo le prime (anche rispetto ai coetanei maschi) – racconta Lidia - che avevamo preso in mano la nostra vita, l'avevamo giocata in prima persona e volevamo ad ogni costo uscire dagli schemi. Guardavamo alle vecchie sui 40 con un atteggiamento comprensivo e un po' di commiserazione: andava di moda tra noi il motto che dovevamo con pazienza educare e allevare le nostre madri. Dico questo perché la mia opinione è che le generazioni sono soprattutto un evento politico, più che anagrafico e che la relazione tra generazioni viene mediata appunto dalla coscienza che si ha degli eventi. Oggi tra noi corre l'idea che sia necessaria una trasmissione, il che significa per l'appunto una relazione politica”.

Il racconto, e le domande, arrivano naturalmente. Non c’è niente di preparato, non c’è nulla di artificioso. Quello che giriamo, che filmiamo, è esattamente, e solo, quello che succede a noi e davanti a noi in questi tre giorni di agosto: le risate, il narrare e narrarsi (Lidia non è solo una mirabolante narratrice ma anche una splendida ascoltatrice), il mettersi in gioco semplicemente, dichiarando la propria appartenenza, rivendicando la propria memoria personale e collettiva. “Quello che vedi è!”. Pietro usa sempre questa frase quando cerca di descrivere il suo modo di fare il proprio lavoro di documentarista. La fisicità di Lidia, il suo corpo e le sue parole, non consentono altro linguaggio: quello che abbiamo filmato, e vissuto, è quello che poi si vedrà alla fine del montaggio del film.

I set del film sono la grande casa di Cles, il suo giardino ventoso e le sue montagne tutte intorno, e la casa di Bolzano, dove Lidia apre i cassetti e gli album di foto. Nelle pause delle riprese si prepara da mangiare, si fanno passeggiate, si guarda la tv. Dopo il primo giorno noi del gruppo ad una certa ora della notte crolliamo, Lidia tira le tre di mattina e ci mette a letto, fresca come una rosa.

Ce lo sogniamo, nel caso si arrivi a ottanta anni, di essere così tonici. Questo è certo.

Davanti alla foto, in disordine, come per caso, ci troviamo di fronte alla grande storia del secondo appena alle spalle, e si resta senza fiato: il Cremlino, Bob Kennedy che riceve la delegazione di amministratori e amministratrici, tra cui Lidia spicca in civettuole mises con cappellini impeccabili e guanti bianchi, diversi partigiani oggi scomparsi, istantanee di Castellina, Ingrao, Rossanda, riunioni di quella che è stata la redazione più ‘fosforescente’, più carica di fosforo e di intelligenza dell’Italia del dopoguerra, come la stampa nordamericana definì quella del Manifesto.

Ogni ora, e saranno tante alle fine, del racconto si trasformano nei mesi che seguiranno, nel lavoro di selezionare, riordinare, montare, in una “presa di coscienza politica”. Quello che abbiamo cercato di fare in questo film non è tanto narrare la vicenda umana e politica di una personalità complessa, forte, di “una persona tutta intera” come Lidia Menapace, ma quella di prendere posizione, di schierarsi, in favore di quella libertà e leggerezza che portarono Lidia, in un pomeriggio degli anni ’40, a decidere da che parte stare, a scegliere la via della Resistenza.

Abbiamo fatto un film, che è anche una dichiarazione: noi,tutte e tutti noi che abbiamo lavorato a questo progetto, “ci dichiariamo nipoti politici”. Sentiamo di essere figli,figlie (e nipoti) di un percorso, di una storia, e di determinati valori. E in particolare del valore della critica, della libertà di parlare e di esporsi, di schierarsi e di definirsi, quando ce la facciamo con leggerezza e ironia.

“A me piace che amicizia significhi parlarsi – scrive Lidia - mi piacerebbe che anche gli uomini imparassero a dire parole non definitive, non gridate, non scritte subito su importanti documenti, che imparassero la lieve dimensione del parlarsi, che può anche essere cattivo urtante insidioso, ma cui può sempre essere opposto un gesto, un verbo, una smorfia, un'altra parola: il loro linguaggio al contrario finisce sempre per avere un'eco definitiva, di minaccia, ultimatum, fetore di morte non accolta, non accompagnata da pietà, che orrore! Per non avere appreso l'amicizia, per avere paura di apparire meno virili perché hanno amici con cui si parla con confidenza gli uomini hanno inventato la guerra, il più tremendo dei silenzi non comunicanti, la morte”.

Scriviamo queste righe pochi giorni dopo le presentazioni di Modena e Genova di “ci dichiariamo nipoti politici”. Che sono stati sì dei momenti pubblici, ma anche e soprattutto una rimpatriata fra amici e amiche per ricordare quei tre giorni magici: il modo migliore di rafforzare la sensazione di aver fatto una scelta, giusta, nel raccontare la storia di Lidia e alla sua storia richiamarsi per continuare, con maggior forza, a fare il nostro lavoro di persone narranti.

Nessun commento: